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Tangeri, la porta chiusa a chiave

  • di Lorenzo Mazzoni, fotografie di Tommy Graziani
  • 23 set 2015
  • Tempo di lettura: 7 min

Sul traghetto della compagnia marittima Balearia gli emigranti che tornano a casa invadono il lungo pontile. Parlano forte, animatamente. Sono tutti uomini. Le donne, invece, siedono in coperta, e non parlano. I marmocchi corrono e gridano. La giornata è molto calda.


Oltre agli emigranti marocchini qualche famiglia spagnola, comitive di tedeschi di mezz’età, due svedesi a petto nudo a prendere il sole. Al porto di Tangeri, dopo aver sbrigato le formalità doganali, tutti i nostri compagni di traversata scompaiono. Chi parte direttamente per il sud, chi per la costa atlantica, chi per le città imperiali, chi per un alloggio nella parte moderna della città, sul lungomare Mohammed VI, puntellato dagli alberghi di lusso e dai casinò sfavillanti.


Noi non possiamo scegliere, perché dopo due minuti dal timbro dei passaporti, Abdul è già diventato la nostra guida. Abdul ha scelto per noi: Pensione Palace, nel cuore del Petit Socco, un unico letto matrimoniale, una colonna di formiche giganti fra la finestra e il lavandino incrostato, la meravigliosa vista delle terrazze coi panni stesi.

Non siamo potuti rimanere a rimirare il nostro nuovo alloggio perché Abdul ci ha infilato dolcetti in bocca, ci ha condotti per stradine impervie e piene di gente, ha salutato migliaia di conoscenti e ci ha riportato indietro, sulla piazza del Petit Socco e, con un sorriso, ci ha invitato a bere qualcosa sulla terrazza del Cafè Fuentes.


Nella sala grande gli avventori, per lo più anziani, guardano una partita di calcio alla televisione. Sul balcone stretto qualcuno gioca a dama. I più osservano il flusso della piazza, la gente che passa di sotto.


Al Petit Socco (suk, in spagnolo, retaggio dell’occupazione degli sgherri di Franco durante il secondo conflitto mondiale o forse di quell’orizzonte che si chiama Europa e in primis Spagna, primo Paese dall’altra parte dello stretto) non ci sono più le spie internazionali con i loro profumi raffinati, non c’è più odore della poesia di Kerouac o dei romanzi allucinati di Borroughs.


L’unico aroma che si percepisce è quello dell’Africa, dell’Africa nera e illegale che qui, su questo spiazzo rettangolare, si mischia con l’aroma dei contrabbandieri, dei venditori ambulanti, dei perdigiorno e dei trafficanti di kif. I figli dell’Africa nera sono arrivati qui per compiere il grande balzo al di là dello stretto, molti di loro hanno perso lo slancio e vagano per la città vecchia, urlano, sussurrano, guardano e vedono tutto.

Poco importa se l’Unione Europea ha intensificato la collaborazione con il Marocco, dando addito alla polizia di Tangeri di inasprire i controlli e le sanzioni verso gli immigrati trovati senza documenti di soggiorno.


Nonostante il rischio di essere internati nei campi fuori città o di essere rispediti nel loro Paese d’origine, gli immigrati strisciano nei vicoli intorno al Petit Socco, stanno seduti ai bordi della piazza, accorrono, ad uno schiocco di dita di Abdul, per portargli le sigarette ed accendergliele, per consegnargli piccole listarelle di hashish, che poi lui scalda e fuma, guardando la lenta continua processione della piazza.


Jan Potocki, nel suo, Viaggio nell’Impero del Marocco compiuto nell’anno 1791, non parla molto di Tangeri. Rimane tre giorni, fa un’ultima luculliana cena a casa dell’Ambasciatore di Svezia nei sobborghi a sud della città e poi parte.


Nell’anno 1791 Tangeri è ancora piccola, insignificante, poco aperta ai traffici internazionali. Potocki arriva troppo presto. Cent’anni più tardi la città ha quadruplicato la sua popolazione, ci sono ebrei, mussulmani, tedeschi, spagnoli.


Camille Saint-Saëns, organista e compositore nazionalista francese, arriva proprio qui, al café Fuentes, che allora era anche una pensione per europei, dopo la sconfitta del 1871 della Francia contro i prussiani. Fonda la Société Nationale de Musique, proponendosi di esaltare i valori nazionali della musica francese.


Se la supremazia in campo politico-militare è tramontata, bisogna salvaguardarla sotto il profilo artistico-culturale. Saint-Saëns cerca di spiegare le sue teorie ai trafficanti europei che con lui animano la balconata del Fuentes, lo sussurra alle prostitute dagli occhi liquidi che alla notte si porta nella sua stanzetta spoglia, blatera di musica, astrologia ed esoterismo. Si fa assorbire dalle mille parole con cui, intanto, la città si è nutrita, ingigantendosi in modo disordinato e bizzarro.


All’insaputa della gente che la vive, le grandi potenze europee, nel 1912, stipulano il Trattato di Protettorato, che assegna uno statuto particolare alla città: neutralità politica e militare, totale liberismo economico e amministrazione internazionale. L’economia esplode, vengono costruite banche, società anonime, società d’investimenti, hotel, ristoranti di lusso. Il fenomeno della prostituzione e dello spaccio di droga aumenta.


Nonostante la chiusura della città a seguito dell’occupazione delle truppe franchiste, Tangeri cresce, i traffici si fanno sempre più grossi, gli intellettuali e gli agenti segreti arrivano con aerei provenienti dall’America. Le spie dell’est e dell’ovest si rincorrono per i vicoli della Casbah, la Beat Generation si fa fotografare al gran completo sul litorale di Marinasmir.


Con l’indipendenza del Marocco le cose cambiano. Re Hassan II, succeduto al padre, Mohammed V, nel 1961, abolisce i privilegi fiscali concessi per più di cinquant’anni alla città. Il nuovo re odia Tangeri, la considera una città maledetta, infestata da spacciatori, prostitute e da infedeli. La porta d’Europa viene lasciata al suo destino.

L’odore dell’Africa nera è sempre più intenso. Dietro i recinti del porto, dietro le capanne della dogana, sempre più occhi clandestini scrutano il mare e il profilo della Spagna, a soli trentacinque minuti di traghetto, dall'altra parte dello stretto. Tangeri guarda e aspetta. Tangeri, città dai mille occhi.


L'aroma della tensione è palpabile, è nell'aria del porto. Dietro i casermoni industriali, fra i camion in sosta. Passi furtivi echeggiano nei parcheggi dello scarico merci. Le radio accese mascherano i movimenti dei clandestini. Qualcuno forse ce la farà, qualcuno rimarrà nel limbo, per sempre.


Ma non tutti vogliono partire, qualcuno non ci ha mai provato, qualcuno si accontenta di quello che può ricavare dal battito pulsante della città. Abdul è uno di questi. E’ una specie di accompagnatore del KGB. Ci sorveglia. Quando usciamo dall’albergo lui dal balcone del cafè Fuentes ci vede e subito ci dice di salire a bere un cay oppure ci chiede cosa vogliamo vedere e si fa in quattro per portarci a vedere quello che in realtà vuole farci vedere lui.


Abdul è uno dei ragazzi del Petit Socco, della vecchia medina, disinteressato a quelle che vengono considerate le bellezze turistiche della città. Ci porta da un suo amico panettiere per farci osservare come viene cotto il pane, passeggiamo senza meta su e giù per le stradine ripide, dove Abdul chiacchiera con i passanti, ci presenta al suo insegnante di inglese, un vecchietto in galabbya con bastone che ci saluta con un dolce e sdentato sorriso silenzioso.


Abdul passa indistintamente dall’inglese, al francese, passando per lo spagnolo e l’italiano, parla veloce, gesticola con le mani, ci conduce attraverso sciami di bambini urlanti che reclamano regali e mance. Scendiamo a Bab el Bahr, la porta del mare, oltre l’arcata, con la scala che immette al porto. Immette al caos.

Risaliamo rue Ber Raisoul verso la Casbah, ripida e minacciosa, con l’ultimo tratto composta di scale e di decine di porte socchiuse, voci che sussurrano, radio che mormorano. Quando arriviamo al Dar el Makhzen, l’antico palazzo fatto costruire dal sultano Moulay Ismail, il liberatore della città dalle grinfie cristiane, il sole si scioglie nel mare, l’intera città vecchia, il porto e le acque dell’oceano diventano rosse e infuocate e i muezzin alle nostre spalle intonano la preghiera. Abdul si scusa e si dirige verso la moschea. Ci lascia soli a rimirare il giorno che si addormenta sull’acqua. Dall'altra parte dello stretto l'Europa, la porta di cui nessuno possiede la chiave.


La coltivazione della canapa indiana (kif) è apparsa nel diciassettesimo secolo nella regione settentrionale del Rif, attorno a Ketama. Fino al undicesimo secolo l'uso del kif era limitato esclusivamente alle confraternite sufi. Con il protettorato francese in Marocco (1912), la regione del Rif viene attribuita agli spagnoli che lasciano prosperare liberamente la coltura del kif. Nella parte francese, la coltivazione è proibita a partire dal 1932. All'indipendenza (1956) il divieto è esteso a tutto il Paese, ma la coltivazione del kif è di fatto tollerata, soprattutto nel Rif; per il potere è un modo per riequilibrare il suo disinteresse per una regione berbera da sempre particolarmente ostile al potere monarchico.


Gli abitanti di Tangeri si disinteressano dei dissapori fra gli abitanti del Rif e il governo, salgono sulle montagne con i bagagliai delle macchine vuoti e ritornano in città stracarichi di marijuana e hashish. Tangeri capitale marocchina del contrabbando e dello smercio di droga.


Al Cafè Fuentes si fuma liberamente. Gli anziani usano il sesbi, una pipa di legno dal fornello in terracotta, i giovani si limitano a rompere sigarette dalle marche occidentali e ad arrotolare grossi spinelli. Tutti trafficano con il kif. Gli immigrati illegali in vista di un nuovo tentativo di fuga in Europa, Abdul e gli altri ragazzi del Petit Socco, il commerciante di tappeti, i caporali dell’immigrazione e del contrabbando umano. Il kif aleggia nell’aria, insieme all’odore dell’Africa nera e della povertà.

Abdul dice che nel Rif i montanari fanno respirare il fumo del kif ai bimbi raffreddati. I suoi amici ridono e bevono cay. L’africano immobile nell’angolo avanza all’ennesimo schiocco di dita, allunga sigarette a tutti, fa comparire listarelle di hashish sui palmi aperti. Il muezzin canta il suo amore per Dio il Misericordioso, Abdul sputa il fumo in aria e cerca di convincerci a comprare un chilo di kif per duecento euro. Lo dice sorridendo, mentre la città diventa buia e misteriosa dopo l’ennesimo, immancabile tramonto infuocato.


Il geografo Ibn Battuta è nato qui nel 1304, è partito nel 1325 per la Mecca, ed è tornato colmo di esperienze, dopo aver viaggiato in Cina, in Russia e nell’Africa nera, fino a Timbuctù. Riha si chiama il libro dove racconta la peripezie dei suoi viaggi. Ibn Battuta era un uomo che non riusciva a stare fermo, doveva muoversi, conoscere.


Al Petit Socco nessuno ha sentito parlare di lui, lo hanno dimenticato, hanno ricacciato il miraggio del viaggio e della partenza in fondo alla gola. Non possono far altro che attendere il giorno, chiacchierare di affari e di commerci illeciti. Nei vicoli, intanto, gli immigrati si rintanano nelle corti interne, cercano nell’ombra ispirazioni per sopravvivere un giorno ancora in questo limbo maleodorante e inquietantemente magnifico. Tangeri, nel bene e nel male, è una magia. Ibn Battuta, oggi, è soltanto l'aeroporto internazionale della città, accessibile ai pochi.


Prima di prendere il taxi che ci porterà alla stazione ferroviaria andiamo al Cafè Fuentes a salutare Abdul, ma lui non c’è. E’ la prima volta che non troviamo ne lui ne i suoi amici. Il proprietario ci dice che sono tutti andati a pregare. Scendiamo le scale verso la porta del mare.



 
 
 

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